Intervista per Voce Romana
Violetta Chiarini intervistata da Federica Sabatini per Voce Romana. Edizione marzo–aprile 2011, p. 40
Come è nata la sua passione per il teatro e per la musica e quali sono stati i suoi inizi? È stata una sua scelta, o l’ha spinta qualcuno, magari i suoi genitori?
La passione per lo spettacolo, e in particolare per il teatro musicale, l’ho avuta fin da piccola. Mia madre mi raccontava, e io me lo ricordo benissimo, che, già all’età di due anni, cantavo tutto il giorno, non le canzoncine dei bambini, bensì, con un italiano ancora infantile, le romanze di Verdi e Puccini, che avevo imparato da mio padre, patito del melodramma, e da mio nonno, che si dilettava a suonare il violino. Come sentivo la musica, salivo su un panchetto e «dirigevo l’orchestra»: era più forte di me. Ancora fanciulla fui portata all’opera, al Teatro alla Scala, dove mio padre, era un habitué. Ascoltai compunta e affascinata «Il Trovatore» di Giuseppe Verdi e decisi che da grande avrei «calcato le scene». Mio nonno aveva sempre desiderato che a sette anni iniziassi lo studio del violino e più tardi quello del «belcanto», ma mio padre era fortemente contrario a una mia scelta artistica di tipo professionale. Poi, purtroppo, mio nonno morì prematuramente e io dovetti riporre nel cassetto il mio sogno di diventare un direttore, o meglio una durettrice d’orchestra o una cantante lirica. Siccome però amavo tanto anche il teatro di prosa, coltivai indefessamente e con costanza questa passione e, nonostante i continui e durissimi ostacoli familiari, alla fine riuscii a diplomarmi a pieni voti allo Studio di Arti Sceniche di Roma di Alessandro Fersen, dove mi aveva indirizzato Lee Strasberg, dopo avermi avuto come allieva in un suo stage di recitazione in Italia, quando ero una ragazzina e, come minorenne, impossibilitata a decidere del mio destino e quindi anche di seguirlo a New York, come lui mi consigliava, per frequentare il suo famoso Actor’s Studio. Fu così che passai dal teatro amatoriale a quello professionale, senza tuttavia abbandonare il canto. Infatti, a cominciare da Fersen, che mi fece recitare e cantare anche a Spoleto Festival e al Maggio musicale Fiorentino (siamo nei primi anni settanta) nei suoi lavori di teatro totale, quasi tutti i registi coi quali ho lavorato nella prosa hanno voluto riservarmi, all’interno della pièce recitata, un momento canoro tutto per me. Oltre che in teatro, ho recitato e cantato anche alla radio — come soubrette in numerose riviste radiofoniche e programmi d’intrattenimento — e in televisione, in minishow a puntate di cui sono anche autrice e — come ospite — in programmi di altri artisti. Da alcuni anni ho optato per un Kabarett-schau che mi consente di usare canto, recitazione e altre tecniche espressive.
Qual è il suo punto d’arrivo? Al livello professionale che ha raggiunto, pensa che ci sia ancora qualcosa da imparare?
Se si sceglie la professione dello spettacolo per vocazione e, in particolare, se si abbracciano l’arte del Teatro e quella della Musica, non esiste un punto d’arrivo, vale il principio dell’educazione permanente: si continua a imparare per tutta la vita. Questo è il mio pensiero e la mia prassi. Comunque, bisogna distinguere tra la carriera e il livello artistico raggiunto, poiché non sempre le due cose coincidono. Per noi interpreti io penso che l’ideale sia avere un manager che ci aiuti a gestire la carriera nel modo giusto, consentendoci così di dedicare la maggior parte del tempo e le migliori energie al nostro lavoro, il quale esige una dedizione appassionata e incondizionata, uno studio continuo, un aggiornamento periodico e un addestramento professionale rigoroso. Purtroppo in Italia la figura del manager e quella del talent-scout non appartengono, al contrario di quanto avviene in altri paesi, alle categorie professionali legalmente riconosciute, con le conseguenze che si possono immaginare.
Cosa pensa del successo?
«Successo» è una parola che non mi è voluta mai entrare veramente nella testa. Io ho sentito il bisogno di dare un senso più profondo all’arte che ho scelto di professare e quindi di percorrere strade diverse, poco battute, per questo non facili e lontane dalle logiche di mercato e dalle dinamiche di potere. In quest’ottica ho capito anche che bisognava assumersi il rischio di precorrere i tempi. Tutto questo raramente si concilia con la rincorsa al facile successo. Il mio desiderio è stato ed è quello di riuscire a stabilire una comunicazione sempre più profonda col mio pubblico. È così che mi sento felice, è così che sento di realizzare il mio potenziale artistico e umano, è questo il tipo di successo che mi interessa. Quando qualcuno gode di quello che do sulla scena, o nei miei testi, e lo apprezza; quando critici onesti e validi scrivono giudizi positivi su di me, ecco, allora io mi sento baciata dal successo. Sia ben chiaro, non disdegno affatto il successo di massa, ma se esso dovesse arrivare (essendo un fattore imponderabile, è sempre possibile), cercherei con tutte le mie forze di farne uno strumento al servizio dell’Arte. So che non è facile, e nello show-business italiano è una vera utopia, ma io appartengo costituzionalmente alla categoria di quelli che vogliono servire l’Arte e non di quelli che la usano solo per la propria glorificazione. So che posso apparire una sciocca sognatrice, ma la realtà e l’esperienza mi hanno insegnato che nella lunga distanza la mia è una scelta vincente, anche perché il pubblico, a qualunque livello appartenga, percepisce benissimo il mio approccio alla professione e mostra di apprezzarlo grandemente. D’altronde, non dobbiamo dimenticare che lo spettacolo appartiene per sua natura all’effimero e quindi che gli interpreti scrivono sull’acqua. Cambiano i gusti, cambiano gli stili, le realtà storico-sociali e culturali, cambiano le esigenze del pubblico, per cui il lavoro di un interprete, a qualunque branca dello spettacolo appartenga, non è mai «per sempre». Ed è anche la coscienza di tutto questo a suscitare in me una sorta di spirito di missione che dà al mio lavoro quel senso profondo cui accennavo prima.
Dunque, se ho ben capito, l’idea della missione contrapposta alla ricerca del successo?
Esattamente. Nelle mie scelte artistiche e nel mio modo di far teatro ho sempre cercato di non farmi condizionare dal gusto corrente del pubblico, bensì di contribuire a orientarlo verso una forma di teatro allusivo, essenziale, privo di quegli orpelli che vorrebbero metterlo in gara col cinema e con la televisione, un teatro che recuperi la sua funzione primaria: quella di stimolare la mente e il cuore dello spettatore, che deve immaginare e provare emozioni, e poi, a spettacolo finito, riflettere e sentirsi arricchito. In questo miei maestri sono stati Alessandro Fersen e Dario Fo, coi quali ho avuto la fortuna di lavorare. Fersen, in particolare, quando facevo parte del «Giovane Teatro di Ricerca», da lui fondato, insisteva sempre su questa «missione dell’attore» e sulla sua «santità laica» che lo spinge a realizzarla. Oggi l’influenza più importante su di me è esercitata dal mio Maestro spirituale, il filosofo buddista Daisaku Ikeda. Le sue parole mi sono di guida. Eccole: Ci sono persone che godono di fama e celebrità, ma se non creano niente che abbia valore o contribuisca alla società e alla felicità degli altri, in realtà non sono minimamente da ammirare. D’altro canto, ci sono persone che lavorano silenziosamente e invisibilmente per il benessere degli altri e il miglioramento della società. Sono queste persone che brillano di vera grandezza umana.» Ikeda si richiama anche al pensatore inglese Walter Pater che scrisse: «Il successo nella vita è bruciare sempre di continua passione mantenendo questa estasi». Ecco, io — convinta come sono della necessità dell’educazione permanente — cerco di continuare a crescere a questa scuola e forse anche per tale ragione non ho cercato il successo con la S maiuscola. A volte penso che, se lo avessi fatto, oggi avrei, con una maggiore notorietà, anche più denaro e potere contrattuale, fattori utilissimi per la libertà di scelte artistiche, ma poi concludo che, se la mia natura mi ha portato a percorrere certe strade piuttosto che altre, vuol dire che per me, per la mia vita, doveva essere giusto così e allora non ho rimpianti. Penso che alla fine la fedeltà incondizionata a sé stessi paghi moltissimo. A pensarla come me è anche il cantante Shel Shapiro che ha dichiarato in una recente intervista «Se fossi stato meno rigoroso oggi sarei più ricco, ma non certo più innocente». E io concludo che tutto poi dipende da come ci si sente dentro. Anche in questo mi sono preziose le parole di Ikeda quando dice che la felicità, in definitiva, consiste in un forte senso di sé ed è una profonda eco nella nostra vita. Egli ci incoraggia a vivere con gioia, motivati da un forte senso di missione, e a realizzare i nostri scopi. È questo che fa sentire felici. Ed è questo per me il vero successo. A proposito di successo mi colpì quello che rispose a un giornalista della Radio Lalla Romano, una scrittrice che io amo molto, qualche anno prima della sua scomparsa. La Romano parlava pacatamente e io bevevo le sue parole, anzi, abituata a prendere rapidi appunti, feci in tempo a scriverle esattamente. Invitata dapprima a fare un’autopresentazione, la scrittrice così si definì: «Una persona che ha sempre saputo cosa contava per lei nella vita.» Poi le fu chiesto che pensasse del suo successo tardivo, da lei accettato con molto distacco. Rispose: «Questa parola, che vuol dire affermazione e riconoscimento, in questo momento non ha valore. I libri più venduti sono pessimi. E così certi programmi televisivi di grande audience; persino il Nobel non vuol dire successo. È una parola talmente circondata di falsità e di trucchi che non ha a che fare con la realtà. C’è quasi da vergognarsene.» Certo, quella di Lalla Romano è una posizione estrema e polemica, ma mi trova per certi versi d’accordo.
Lei prima ha parlato di precorrere i tempi, si riferiva ai suoi spettacoli?
Sì, pressoché tutto quello che ho scritto e presentato al pubblico è stato antesignano, a volte non solo nei contenuti, ma anche nella forma, di spettacoli di colleghi venuti molto dopo. Ad esempio, nel periodo aureo del movimento femminista – che, a mio avviso, si può far partire dalla celebrazione nel 1975 dell’Anno Internazionale della Donna — il mio recital «È venuto il tempo di essere», rivendicava il valore del femminile in una forma nuova, «più rivoluzionaria, perché senza invettive», scrisse la critica, una forma, diciamo così, da donna, controcorrente rispetto a quella aggressiva e, per così dire, maschile delle altre femministe, che per me era già superata. Per questo ad alcune donne del «movimento» non piacqui, ma il pubblico colse la profondità del messaggio che il mio spettacolo lanciava ed esso rimase in cartellone per anni a crescente richiesta, perché ancora valido, quando già si parlava di riflusso, e supportato dal successo dell’audiolibro «Femminilità e Femminismo» — della collana «Arte comica», diretta da Roberto Lerici — che Mondadori ne aveva tratto nel 1978, per la regia di Gino Negri. Un altro esempio del mio andar contro tendenza ed essere in anticipo sui tempi: quando nei primi anni ’80 in Italia trionfava – con ritardo rispetto al resto d’Europa – la disco-music, io, che di questo genere musicale avevo inciso un disco a Berlino qualche anno prima, proposi come contraltare il revival con «Vecchia Europa sotto la luna», perché sapevo che, finita la stagione dei grandi cantautori e l’ubriacatura della disco-dance e con il ristagno della creatività che già si percepiva, lì saremmo approdati, o meglio, ci saremmo dovuti rifugiare. Qualcuno alla RAI mi disse che ero matta, ma il pubblico e la critica mi fecero giustizia. Anche «Telefoni bianchi e giubbe grigioverdi», uno spettacolo musicale che fa rivivere sulla scena un periodo lacerante del ’900, debuttò in prima nazionale al Comunale di Latina nel 1994 e poi nell’Estate Romana, quando si era ben lontani dalla rivisitazione — attualmente in corso, ma nel 1990, quando concepii lo spettacolo, ancora tabù — di quel periodo travagliato della nostra storia nazionale da parte del mondo politico-culturale. E si era ancor più lontani dall’attuale moda teatrale e cinetelevisiva di dedicare agli anni dal 1922 al 1943 i più svariati spettacoli. Ora i miei lavori teatrali di revival, in grande anticipo sui tempi, sono più che mai up-to date e figurano nei cartelloni della prossima stagione.
C’è un aneddoto nella sua vita di attrice che le è particolarmente caro?
Ne ricordo uno per me particolarmente significativo. Dopo una severa selezione di giovani attrici, ero stata scritturata come protagonista dal Teatro Caminito di Buenos Aires che rappresentava in Italia la commedia «Casa Barranco», di Gregorio de Laferrère. Nel cast, oltre a Isa Danieli, Arnaldo Ninchi e altri prestigiosi interpreti, figurava la celebre attrice Paola Borboni, scomparsa quasi centenaria alcuni anni fa. Il suo ruolo era quello della madre della protagonista e io mi trovavo a recitare in coppia con lei le scene più importanti della commedia. Il regista argentino Cecilio Madanes ci dava delle indicazioni ben precise, ma gli era difficile guidare la Borboni, che aveva una personalità e un carisma eccezionali, uniti all’autorevolezza che le derivava dalla sua lunghissima e importante carriera, dalla sua fama e dalla sua veneranda età. Oltretutto era conosciuta, anche dal grande pubblico, per le sue battute fulminanti, per il suo carattere anticonformista e per certi suoi atteggiamenti trasgressivi. Basti ricordare lo scalpore che suscitò a livello mondiale (siamo negli anni ’70) il suo matrimonio con il poeta-attore Bruno Vilar, di quarant’anni più giovane di lei. Insomma, confrontarsi con un personaggio come la Borboni era sempre un po’ rischioso, specialmente per le giovani attrici, cui lei non risparmiava giudizi severi e punzecchiature mordaci, ancorché esilaranti. Si può bene immaginare, quindi, come, dall’alto della sua esperienza, stesse continuamente a «rivedere le bucce» al regista, dispensando a tutti, e in particolare a me che ero la sua partner principale, consigli e suggerimenti, laddove non veri e propri ordini, che contrastavano completamente con le direttive della regìa. Io avevo perciò una gran confusione in testa e non sapevo a chi dare ascolto. Finché mi decisi ad affrontarla – con rispetto, ma con piglio sicuro — dicendole: «Signora, qui c’è una persona che firma la regia e si prende la responsabilità dell’intera messa in scena. La mia etica di professionista e la mia disciplina mi impongono di seguire le sue indicazioni che, oltretutto, ritengo giuste per la creazione del mio personaggio. La prego quindi di astenersi dal fare le sue osservazioni in proposito.» La Borboni ascoltò con gli occhi sbarrati senza replicare e si allontanò altezzosamente dalla sala prove. «Ecco — pensai — l’ho indispettita e adesso magari mi fa protestare o abbandona la compagnia, con grave danno di tutti, e io ne sarò responsabile.» Di lì a poco tornò, sempre con l’aria della maestà sdegnata, e le prove ripresero tranquille e filate fino al termine. L’indomani, prima di iniziare a lavorare, mi si avvicinò con aria serissima e, mettendomi in mano un pacchetto infiocchettato, «Prendi!» — mi disse brusca – «È per te, aprilo!» In quell’istante mi si bloccò il cervello, strappai febbrilmente i fiocchetti, lacerai l’involucro e mi ritrovai fra le mani una raffinata confezione da mezzo litro (!) di pregiatissimo profumo francese. «Signora Paola …», balbettai. Ma lei mi troncò la frase. «Ieri» — disse — «hai saputo tenermi testa da vera professionista e io ti ho voluto premiare. Ti preconizzo un avvenire di vera artista.» Da quel momento fummo amiche per la pelle. Mi portò con sé al ricevimento dell’Ambasciata argentina, poi — sapendo la mia passione per l’Oriente — mi regalò un sari indiano ricamato. Quanto alla commedia argentina, la nostra amicizia aveva dato ottimi frutti, sia sul piano del gradimento del pubblico, sia per gli elogi della critica che erano quasi tutti per noi due. Alla fine delle repliche la Borboni mi segnalò a Garinei e Giovannini che, sempre dopo un accurato provino, mi scritturarono, con la stessa attrice, per «Ciao, Rudy!», con Alberto Lionello. Così Paola ed io ci trovammo di nuovo a lavorare insieme. E innumerevoli sono le lezioni d’arte e di vita di cui fu prodiga con me. Durante la tournée della commedia musicale la Borboni si sposò con Vilar e io fui invitata al matrimonio. Per regalo di nozze volle da me un ricettario. La cosa mi commosse: era già molto anziana, ma sognava come una giovane sposa, lei che non era mai entrata in cucina. Le feci trovare il ricettario dentro un oggetto prezioso e lei gongolava con gioia infantile… Della Borboni avrei tanti altri episodi da raccontare, ma non basterebbero dieci interviste. Tutti, comunque, dimostrano che, al di là della grande personalità di attrice e del personaggio stravagante, e a volte scomodo, c’era una donna vera e una persona di una generosità e di un’onestà intellettuale davvero eccezionali.
Quali doti sono in genere necessarie per emergere?
Il talento naturale, lo studio e l’allenamento, la determinazione e l’ottimismo, la costanza e la pazienza, il coraggio e l’autostima, la capacità di rinnovarsi, un’umiltà socratica e una buona disponibilità verso gli altri. Queste sono le doti necessarie per diventare un artista e, in genere, un professionista di vaglia nel campo che si è scelto. E sono anche qualità che consentono di creare valore nella vita, di diventare persone di alto spessore umano, oltre che professionale. Chi le possiede dovrebbe emergere automaticamente, ma non sempre è così. Molto dipende dall’ambiente in cui ci si trova a vivere e a operare. Ci sono contesti sociali in cui si sostengono delle mediocrità, trascurando, e talvolta lasciando marcire, i talenti veri e misconoscendo le persone meritevoli. In tali situazioni le doti per emergere sono ben altre e, comunque, quelle che ho detto non bastano, quando non sono superflue o addirittura controproducenti. Ad esempio, in un ambiente di lavoro pressappochista e sfaticato, la persona capace che svolge bene e volentieri i suoi compiti può avere vita difficile, e magari può vedere occupato il posto che merita da chi ha usato altri mezzi per ottenerlo. È così che spesso valore e carriera non coincidono. Nella vita ogni conquista ha un prezzo. Se si vuole emergere bisogna sceglierlo e immancabilmente pagarlo. Sudore, fatica, sacrifici economici e disagi vari, dura disciplina, rinuncia agli affetti, alla vita privata, ma anche vendita delle proprie idee, del proprio corpo, della propria immagine, della propria coerenza e dignità, danni ai colleghi, che — per la legge inesorabile di causa-effetto che governa tutta la realtà — ricadranno su chi li fa: questi ed altri sono i prezzi vari tra i quali deve scegliere chi vuole emergere. Ci sono poi i superfortunati che emergono senza pagare alcun prezzo, ma sono l’eccezione e, comunque, sono quasi sempre supportati dalle famiglie, o dal coniuge o compagno-manager, che investono su di loro il denaro o le aspettative per il futuro, o entrambe le cose, magari collaborando in misura rilevante — quindi anche con sacrifici di tempo ed energie — alla costruzione della carriera del loro congiunto. Penso, ad esempio, a Maria Callas. Il vero artefice della sua carriera fu il marito, Giovan Battista Meneghini che, da ricco industriale, si trasformò in manager, abbandonando completamente la propria professione, per dedicare la vita al grande soprano. Ma normalmente il personal manager, come accade in paesi diversi dall’Italia, è un professionista che vive del suo lavoro e allora vorrà pur essere compensato e non di rado è accaduto che grandi artisti dai cachet vertiginosi siano morti poveri, mentre il loro agente si era arricchito. Come si vede, per poter emergere, un prezzo da pagare — direttamente o in modo indiretto — c’è sempre. Penso tuttavia che nello show-busines di altri paesi, diversi dal nostro, le cose vadano in altro modo. Il mio coach americano Bernard Hiller, mi dice sempre che in U.S.A. le persone di talento vengono sostenute e sono oggetto d’investimento, e che l’arte e la professionalità prima o poi hanno i riconoscimenti che meritano.
Spingerebbe i suoi figli verso la carriera dello spettacolo?
Non soffocherei mai le loro aspirazioni, ma non li spingerei. Li aiuterei a realizzarle, ma solo se fossero oggettivamente basate su un grande talento artistico, su una salute di ferro, su una grande capacità di dare e su tutte le doti che ho elencato nella prima parte della mia risposta precedente.
A quale tipo di pubblico rivolge i suoi spettacoli?
Il mio è un genere di spettacolo composito, che tende a far passare i messaggi culturali attraverso la forza e la suggestione di linguaggi espressivi in armonica contaminazione tra loro e in una successione drammaturgica che consente allo spettatore una fruizione partecipata, con diverse chiavi di lettura: emotiva, analitica, di approfondimento, di puro divertimento. Ne consegue che i miei spettacoli risultano graditi sia a un pubblico di élite, sia a un pubblico popolare. Infatti vengono rappresentati nei circuiti della prosa, in quelli della musica classica e anche all’aperto nelle serate estive, in presenza di un pubblico eterogeneo.
Sappiamo che ha creato a Casperia (RI), in Sabina, il Centro Culturale «Piccolo Teatro del Violangelo». Come mai un personaggio del suo spessore artistico, che lavora normalmente in circuiti elitari, accetta non di rado di esibirsi in piazze di periferia e in piccoli paesi del Lazio?
Non faccio distinzione tra gli spettatori. Per me il Pubblico è il Pubblico, in qualunque palcoscenico io mi trovi. È il mio approccio al mestiere di attrice, di cui ho già detto, che mi porta ad avere questo tipo di rapporto con la Platea. Ricordo, un po’ di anni fa, quando partecipai ad alcune manifestazioni dell’Estate Romana e accettai volentieri di presentare un mio spettacolo in quartieri periferici, considerati degradati e rifiutati perciò da altri miei colleghi. Decisi di propormi a quel pubblico popolare come avrei fatto per una première alla presenza di critici in un importante teatro italiano: pianoforte a coda, tecnici di prim’ordine, costumi eleganti, accuratezza nella mia preparazione, ecc. Quel pubblico, che a detta di qualcuno avrebbe dovuto essere ingovernabile e addirittura pericoloso, mi dedicò una partecipazione attentissima e un successo davvero strepitoso, con ovazioni e richiesta di autografi. Se ti doni al pubblico, il pubblico si dona a te, se lo fai sentire importante, ti dà importanza. Questa è la mia esperienza. Con la mia «officina-teatrino» di Casperia, cerco di sensibilizzare alla cultura e al teatro gli abitanti di una zona meno servita in tal senso e di contribuire a valorizzare «La Perla della Sabina», come viene chiamato l’antico borgo medievale, l’antica Aspra. Riguardo poi ad altri piccoli paesi del Lazio, sono vari i fattori che mi hanno reso lieta di portarvi uno o più dei miei spettacoli. A volte è stata la fiducia e la stima per gli organizzatori, o la gentilezza e la simpatia delle persone con cui ho trattato; lo splendore architettonico di certi luoghi antichi del Lazio, o talvolta il loro fascino misterioso; la soddisfazione di scoprire e inaugurare, io per prima, una sala nuova, o uno spazio bellissimo, o un luogo con un’acustica eccezionale, o un’area ricca di opere d’arte e nuova alle attività della cultura e dello spettacolo; infine il piacere della buona tavola che caratterizza quasi tutte le cittadine laziali.
Ha dei rimpianti? Qualcosa che non è riuscita a fare?
Sì, rimpiango di non aver frequentato il conservatorio di musica e di non essere diventata anche una musicista.
Com’è Violetta Chiarini fuori dal palcoscenico?
Una persona con tutti i difetti degli ansiosi e con alcune insicurezze. Appena entro in scena tutte le mie paure svaniscono come per incanto. Il rapporto col pubblico mi esalta, mi energizza, mi fa trovare quel contatto con la mia parte più profonda, con la mia Fonte Sacra, che fuori dalla scena mi sfugge. È lì che viene fuori la vera Violetta. Anche se il pubblico fosse ostico, io mi divertirei lo stesso, mi sentirei come un domatore che riduce a ragione la belva e vince una grande sfida. Sto lavorando molto su me stessa perché le due Violette si possano riunire e sento che con il potere terapeutico del teatro ce la farò alla grande.